I sintomi del Parkinson giovanile: perché la malattia colpisce anche gli under 40

Che cosa è il Parkinson a esordio giovanile
La malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa seconda solo all’Alzheimer in termini di diffusione. L’età media di esordio è intorno ai 60 anni. Non è però una malattia solo di adulti-anziani; vi è un consistente numero di casi con esordio giovanile: circa il 5% dei pazienti esordisce prima dei 40 anni, con casi ancora più estremi, pazienti tanto giovani da presentare i primi sintomi prima dei 10 anni. Michael J.Fox, volto di un’intera generazione, ha scoperto di essere malato del morbo di Parkinson all’età di 29 anni, al culmine della sua carriera. «Non è dunque una patologia rara: parliamo di ventimila persone solo in Italia che incontrano la malattia in giovane età, numero ancora maggiore se poniamo il limite di età ad esordio precoce ai cinquanta anni» sottolinea Gianni Pezzoli, neurologo, presidente dell’Associazione Italiana Parkinsoniani e della Fondazione Grigioni per il morbo di Parkinson. Viene dunque colpita una popolazione ancora molto attiva dal punto di vista sociale, lavorativo e anche riproduttivo. E la diagnosi arriva come uno tsunami.
Quanto conta le genetica?
«In questi pazienti, nel 50-60% dei casi la genetica gioca un ruolo fondamentale, in particolare quando c’è familiarità (altri membri della famiglia affetti da Parkinson). Tra le mutazioni associate ad un aumentato rischio di sviluppare il Parkinson si sta studiando molto il gene GBA, che è il più comune fattore di rischio genico associato alla malattia, anche se va specificato che non è detto che chi è portatore del gene GBA o degli altri geni associati al Parkinson svilupperà per forza la il Parkinson» sottolinea Pezzoli. Perché la patologia compaia o no è però ancora oggetto di ricerca. «Crediamo che a concorrere allo sviluppo della malattia sia in realtà un mosaico di geni deputati allo smaltimento delle proteine- spiega il neurologo-. “Spezzoni” di proteine tossiche invece di essere eliminate si accumulano, a livello cerebrale, impedendo, fra l’altro, la respirazione della cellula».
Il ruolo di pesticidi e diserbanti
È noto che alcunipesticidi ed erbicidisiano da tempo associati alla malattia neurodegenerativa. Di recente una ricerca pubblicata sulla rivista Nature ha identificato 10 pesticidi capaci di danneggiare in modo significativo i neuroni dopaminergici, la cui morte è una delle caratteristiche tipiche della malattia. «Esistono veleni molto potenti che possono provocare il Parkinson nell’arco di poche settimane e in modo irreversibile – sottolinea Pezzoli – come ad esempio l’MPTP (metil fenil tetraidropiridina), sostanza che fino agli anni sessanta veniva venduta in Occidente come diserbante (Paraquat, Cyperquat). Oggi è ancora utilizzato in molti Paesi poveri del mondo perché poco costoso ma anche in paesi ricchi come gli Stati Uniti«.. L’esposizione a pesticidi, erbicidi, insetticidi e fungicidi si verifica tramite l’assunzione di acqua o cibo contaminato, per contatto cutaneo o per inalazione diretta per questo sono più esposti i lavoratori agricoli. «Negli Stati Uniti dove in moltissime zone l’acqua si ricava dai pozzi circondati dai terreni coltivati si è visto che la popolazione che beve acqua di pozzo, rispetto a chi beve quella di fiume, ha maggiore probabilità di sviluppare la malattia di Parkinson: l’acqua di fiume inevitabilmente diluisce le sostanze tossiche».
La dieta ricca di latticini
«È stato osservato – sottolinea il neurologo – una maggiore facilità a sviluppare il Parkinson nelle persone che fanno molto uso di latticini e derivati. Non è del tutto chiaro il collegamento ma ci sono un paio di ipotesi: la dieta a base di latticini cambia il microbiota intestinale e sappiamo che determinati batteri intestinali “cattivi” sono associati anche a malattie neurodegenerative. Un’altra possibilità è che bovini e ovini da cui derivano i prodotti caseari si nutrono di erba, che può contenere erbicidi tossici potenzialmente dannosi per i neuroni dopaminergici».
I farmaci antinausea
Anche un abuso di farmaci antinausea, antivertigini e antipsicotici tipici può provocare parkinsonismo. «Farmaci a base di metoclopramide, con diversi nomi commerciali, sono in libera vendita. L’utilizzo sporadico non è pericoloso ma l’assunzione cronica sì» avverte il neurologo. In questi casi «con la sospensione dei farmaci il parkinsonismo può regredire ma dipende dalla plasticità cerebrale del paziente: i più giovani hanno maggiori probabilità di recuperare bene rispetto a chi supera i 60 anni».
Da dove «entra» la malattia?
Un recente studio del Karolinska Institute di Stoccolma pubblicato su Plos Medicine ripropone l’ipotesi avanzata più volte di un possibile ruolo degli agenti infettivi all’origine di malattie neurodegenerative. Sembrerebbe che virus o batteri, o anche una combinazione infettiva virale-batterica contratte intorno ai 40 anni inneschino o accelerino i processi che culminano nel Parkinson o nell’Alzheimer. «L’infezione può penetrare dal naso e risalire attraverso ai nervi fino al sistema nervoso centrale – spiega Pezzoli – tanto che non va dimenticato come una forte riduzione dell’olfatto sia uno dei sintomi precoci della malattia e può manifestarsi anche dieci anni prima dei sintomi motori». Circa il 20-30% dei pazienti presenta una perdita dell’olfatto prima dell’esordio della malattia. Un’altra via di ingresso sembra essere quella intestinale. Il 75% dei pazienti presenta stipsi, un altro sintomo che può presentarsi anni prima dei sintomi motori. Diversi studi suggeriscono un legame tra alcuni batteri presenti nell’intestino e la malattia di Parkinson con l’ipotesi che la malattia si muova lentamente dai nervi periferici fino a raggiungere il sistema nervoso centrale.
Come evolve il Parkinson giovanile?
«I giovani pazienti in genere rispondono bene alla terapia con levodopa, che va somministrata a basso dosaggio affiancata da agonisti dopaminergici» spiega Pezzoli. Tuttavia oltre agli effetti collaterali più tipici come nausea, nei più giovani si può verificare un aumento della libido che nella quotidianità rischia di diventare un serio problema. I sintomi della malattia sono gli stessi nei giovani e negli anziani, tuttavia la patologia generalmente evolve più lentamente nei giovani. «Se i pazienti con un esordio “classico”, intorno ai 60 anni, cominciano a avere problemi motori a 7-8 anni dalla diagnosi con sintomi che diventano più difficili da trattare, il paziente giovane, in genere, gestisce bene la malattia per 10-15 anni. Ma dal momento che l’aspettativa di vita di un under 40 è molto più lunga di un sessantenne, il paziente dovrà sopportare per molti più anni i sintomi motori tipici della malattia». Per pazienti con una diagnosi di oltre 15 anni oggi sono disponibili terapie più complesse, che con i progressi della tecnologia andranno sempre più migliorando, come la stimolazione cerebrale profonda che può ben controllare i sintomi motori debilitanti e il tremore.
Parkinson e gravidanza
«È bene ricordare anche la gravidanza, che, anche se non si verifica spesso nelle donne con Parkinson perché l’età più comune di esordio della malattia è dopo l’età fertile, nelle forme ad esordio precoce, richiede una gestione più attenta rispetto alle gestanti senza Parkinson» sottolinea Gianni Pezzoli. «La levodopa presenta il miglior profilo di sicurezza per l’uso in gravidanza, mentre altri farmaci andrebbero evitati o prescritti da neurologi molto esperti nei disturbi del movimento. Tuttavia non ci sono prove che le donne con Parkinson abbiano tassi più elevati di complicanze fetali o del parto».
Ci sono difficoltà nella diagnosi?
Il Parkinson giovanile è una malattia poco conosciuta e spesso gli stessi operatori sanitari faticano a collegare i sintomi, soprattutto all’esordio. «In genere i giovani pazienti arrivano dal medico con qualche anno di ritardo perché non ci si aspetta di vedere un paziente giovane con il Parkinson» dice Pezzoli. «Quindi spesso vengono formulate diagnosi di tipo ortopedico o psichiatrico per giustificare i sintomi». La visita neurologica è il primo contatto tra il medico e il paziente ed è un momento importante per entrambi al fine di porre una diagnosi corretta. È bene che la visita sia organizzata seguendo degli standard riconosciuti e secondo le linee guida internazionali. Sulla base di una corretta visita viene quindi posto, o meno, il sospetto di un disturbo del movimento e di conseguenza viene impostato un piano di ulteriori accertamenti e di cura. Gli esami strumentali, quali la Risonanza magnetica nucleare ad alto campo, la SPECT DATscan, la PET cerebrale e la scintigrafia del miocardio (il cuore nel Parkinson è denervato) servono da supporto, talvolta indispensabile, alla diagnosi clinica. È importante sottolineare anche una buona risposta alla terapia cronica con levodopa viene già considerata importante per la diagnosi di Parkinson.