L’epilessia è ereditaria? Si può curare? Tutte le risposte ai vostri dubbi

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05/04/2023

Quando a un paziente viene diagnosticata per la prima volta un’epilessia le domande più frequenti che pone al medico sono: ma è una malattia o un disturbo (passeggero)? È ereditaria? Si può curare? Che cosa sono gli attacchi epilettici? Per quanto l’epilessia sia nota da secoli, è ancora difficile dare risposte chiare a queste «semplici» domande.

 

Che cos’è l’epilessia?

Forse la migliore definizione di epilessia l’ha data nel 1870 John Hughlings Jackson, lo scienziato anglo-americano, padre della neurologia come scienza, che ha legato il suo nome al particolare tipo di epilessia detta appunto «jacksoniana»: «Un attacco convulsivo — diceva Jackson — non è altro che un sintomo che indica il verificarsi di una scarica elettrica, occasionale ed eccessiva, delle cellule nervose su quelle muscolari». La definizione che ne ha dato vent’anni fa la ILAE, Lega internazionale contro l’epilessia, è di comprensione meno immediata: «È un disturbo cerebrale caratterizzato da una cronica predisposizione a generare accessi epilettici con conseguenze neurobiologiche, neurocognitive, psicologiche e sociali. Per parlare di epilessia deve verificarsi almeno una crisi epilettica».

Luci lampeggianti e notti in bianco

Ma non crediate che anche i grandi esperti abbiano una risposta per tutto. Come ogni classificazione medica, anche questa è rigida e non si adatta al singolo: non riesce a spiegare per esempio casi come quello di un ragazzo che, esposto alle luci lampeggianti della discoteca, ha un attacco e che poi, sottoposto a un elettroencefalogramma con la cosiddetta fotostimolazione (cioè con stimoli luminosi lampeggianti), presenta il tracciato di un’epilessia riflessa indotta da quegli stimoli. Questa non è una vera epilessia: affinché si possa affermare che quel ragazzo ne soffre occorrono almeno due attacchi. Allo stesso modo se, dopo una notte in bianco, a un giovane capita una crisi e l’elettroencefalogramma mostra tipici scoppi di alto voltaggio detti burst (che caratterizzano la sindrome di epilessia mioclonica giovanile), anche in questo caso è necessaria una seconda crisi per giungere alla diagnosi. Questa rara forma di epilessia è una di quelle ereditarie più comuni nell’adolescenza ed è scatenata da privazione di sonno e assunzione di alcol; è caratterizzata da scosse miocloniche degli arti superiori al risveglio, alterazioni cognitive e, nel 30% dei casi, da crisi tonico-cloniche generalizzate e crisi di assenza, condizione in cui il ragazzo sembra perso nei suoi pensieri e non reagisce a stimoli sonori e visivi.

 

Secoli di ignoranza e pregiudizi

Più che nelle altre, in questa malattia è importante sollevare il paziente e ancor più i suoi congiunti, la famiglia se si tratta di adulti o i genitori se si tratta di minori, dal velo di vergogna che l’avvolge, retaggio di secoli di ignoranza e pregiudizi che affondano le radici nel Medioevo. All’inizio degli anni ’90, secondo una ricerca Doxa, il 27% degli italiani non sapeva nulla di questa malattia e vent’anni fa (secondo un’indagine Aice - Associazione italiana contro l’epilessia) molte persone erano convinte che si trattasse di un male incurabile, che i malati di epilessia fossero affetti da disturbi mentali, con episodi di improvvisa aggressività. Ancora oggi le persone con epilessia vengono guardate quantomeno con sospetto e molti pensano che vadano tenute alla larga. Nulla in confronto a quanto accadeva nell’antica Scozia, dove il malato era sottoposto a castrazione per evitare che generasse figli.

 

Male sacro e demoniaco

Nell’antica Grecia l’epilessia era il «male sacro» e chi ne veniva colpito era considerato posseduto dagli dei, pur restando un emarginato, una persona diversa dalle altre. Se per i greci pagani il malato di epilessia era in un certo senso piu` vicino agli dei, nel Medioevo cristiano il rapporto si invertì e il malato si trasformò in una preda del demonio, alla stessa stregua dei malati di mente, anche loro ritenuti vittime degli Inferi; le manifestazioni fisiche delle crisi epilettiche furono assimilate alla possessione satanica. Dante Alighieri, descrivendo nella Divina Commedia un paziente colpito da un attacco epilettico (verso 112 del XIV canto dell’Inferno), parla di «quei che cade e non sa como, per forza di demon ch’a terra il tira». È quella «demonizzazione» medievale che alimenta i pregiudizi di oggi. Come diceva Jackson, l’attacco epilettico è solo una «rivolta elettrica» scatenata da un gruppo di cellule cerebrali anarchiche che, rapidamente, coinvolgono nel loro «ammutinamento» anche le altre: se le cellule che si associano a questa rivolta sono poche l’attacco rimane focale, cioè confinato a una piccola area cerebrale. Se invece sono molte, l’attacco diventa generalizzato.

Impulsività elettrica

Quando tutti capiranno che l’epilessia è semplicemente un fenomeno d’impulsivita` elettrica cerebrale, questa malattia perderà di colpo gran parte dell’alone di mistero e di vergogna che la perseguita da secoli, perché quando a una malattia viene riconosciuta una precisa base organica il suo marchio d’infamia si dissolve rapidamente. Lo stesso è accaduto per esempio con la meningite, una malattia che ai tempi dei nostri nonni non veniva neppure menzionata perché evocava il pensiero dei suoi esiti debilitanti. Quella vergogna si è dissipata solo quando, con il progresso delle terapie, anche la meningite è divenuta una malattia curabile come le altre, liberata dal rischio delle conseguenze negative osservate per secoli e che avevano finito per essere considerate ineluttabili. Allo stesso modo, anche l’epilessia può ormai liberarsi definitivamente dallo stigma che l’ha sempre perseguitata: oggi è praticamente sempre curabile e il paziente può conviverci, conducendo un’esistenza pressoché normale.

 

Tipi di epilessie e trattamenti

La maggior parte delle epilessie (ce ne sono una trentina di forme diverse, dal 1989 suddivise secondo la classificazione ILAE in quattro gruppi) può essere trattata con trattamenti adiuvanti non farmacologici e con molti farmaci (dal vecchio gardenale al più recente cenobamato), che consentono di evitare le crisi o ridurne la frequenza e l’intensità, perché attenuano l’ipereccitabilità delle cellule del focus epilettico cerebrale; quando ciò non è possibile il focus epilettico viene eliminato chirurgicamente. Ormai si sa quanta e che tipo di efficacia ci si può attendere dai farmaci nelle varie forme di epilessia e infatti, a seconda del tipo, uno stesso farmaco può essere considerato di prima o seconda scelta.

 

Regole di cura

Per trattare in maniera corretta un’epilessia serve prima di tutto un inquadramento diagnostico preciso. La seconda regola è che nella terapia non si può mai generalizzare: per esempio in alcuni casi sono stati riportati buoni risultati con un singolo farmaco, arrivando a una percentuale dell’80% di pazienti liberi da crisi; in altri si deve ricorrere a più farmaci insieme; ci sono poi casi (come alcune epilessie generalizzate primarie o alcune epilessie parziali dell’infanzia) che, per la rarità o l’insorgenza notturna delle crisi (non gravi) o per la costante evoluzione verso la guarigione spontanea, non richiedono trattamento.

 

Fattori individuali

Dopo aver scelto il farmaco giusto è altrettanto importante stabilire la dose e le modalità di somministrazione, che dipendono da fattori assolutamente individuali come l’età, il quadro clinico e le caratteristiche cinetiche del farmaco: si tratta di fattori così variabili da persona a persona che, dai primi anni ’70, la loro influenza viene controllata attraverso una verifica continua delle concentrazioni del farmaco nell’organismo tramite un semplice prelievo del sangue. È importante infatti mantenere la concentrazione del farmaco entro livelli efficaci.

 

Concentrazioni utili

Per ognuno dei farmaci anti-epilessia la concentrazione ematica ha un limite massimo e un limite minimo, all’interno del quale nella maggior parte dei casi si ottiene la miglior risposta terapeutica. Non si tratta di un valore assoluto perché, come spesso accade nelle terapie, ogni soggetto ha il suo: in alcuni casi le crisi scompaiono con valori anche al di sotto del limite minimo, mentre in altri occorre raggiungere le massime concentrazioni. Ancor più variabile e` la risposta individuale ai diversi farmaci oggi disponibili. Anche se tutti i pazienti presentano in genere una qualche risposta a ogni antiepilettico, c’è chi reagisce benissimo al primo, mentre altri devono provarne anche due o tre diversi prima di ottenere l’efficacia migliore.

 

Farmacoresistenza

Fa eccezione quel 30% di pazienti farmacoresistenti che passano da un farmaco all’altro in un infinito bilanciamento dei pro e dei contro di ogni terapia, spesso senza ottenere granché. Poiché le cure vanno adattate caso per caso, non sempre è possibile individuare subito il farmaco giusto e i dosaggi migliori per ogni singolo paziente: a volte il periodo di aggiustamento della terapia richiede molto tempo e può accadere che il paziente, sfiduciato, si affidi a un altro medico. Anche in questi comportamenti gioca un certo peso sia lo stigma legato all’epilessia, per cui il paziente vuole al più presto liberarsi da una malattia vergognosa, sia la paura di malattie più gravi (di solito teme un tumore cerebrale) che spinge a screditare l’interpretazione diagnostica del medico, un’idea che finisce per essere confortata anche da quella che il paziente erroneamente interpreta come inefficacia della terapia: «Mi fa prendere gli antiepilettici ma chissà cosa ho, perché non vedo alcun miglioramento...».

 

Il senso di colpa dei genitori

In altri casi, soprattutto quando si tratta del primo episodio di malattia, sono i genitori (soprattutto le madri) ad avere un iniziale rifiuto della diagnosi e della terapia antiepilettica per il figlio, anche se non si tratta più di un bambino o di una bambina: la diagnosi fa molto frequentemente scattare in loro un sottile senso di colpa per la vergogna di avergli o averle trasmesso una malattia infamante: «Noi siamo sempre stati sani» è la frase spesso rivolta al medico che comunica la diagnosi, perché non si riesce ad accettare la vergogna di un coinvolgimento nella trasmissione dell’epilessia: una malattia che invece, è bene ripeterlo, non è ereditaria se non in rarissime forme ben conosciute.

 

Fonte: https://www.corriere.it/salute/neuroscienze/23_aprile_05/epilessia-ereditaria-curare-risposte-dubbi-32fe35ae-d23d-11ed-89c0-c0954998de15.shtml?refresh_ce